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Un vecchio adagio dice "Ogni Comune ha l'amministrazione che si merita". Eh no. Per il mio paese non é valida questa affermazione. Perché a Vattelappesca, cosi chiamerò il mio paese, l'amministrazione comunale fa veramente ridere mentre la popolazione fa tutto sul serio. Qui si lavora sodo, industria sempre in movimento, voglia di diventare qualcuno, insomma tutte le spinte necessarie e indispensabili per fare veramente qualcosa di concreto. Non per niente Milano i chiamano la "piccola Vattelappesca". E allora, se gli amministratori fanno ridere i casi sono due. .O gli eletti non sono nativi di Vattelappesca, il che avviene spesso, oppure quando sono stati eletti, da persone serie come erano prima, si mettono tutt'a un tratto a far ridere, forse per confermare l'operato dei loro predecessori, che bontà loro avevano fatto ridere abbastanza. Non voglio mettere in dubbio l'onestà di questi eletti e lo stesso dicasi della buona volontà, ma quando si tratta di competenza mi ritorna alla mente quanto diceva Pennello, un vecchio paesano non certo addottorato, che ai suoi tempi, partendo per la leva militare con altri commilitoni ben forniti di buon vino toscano, ebbe a dichiarare "s'avea tutti un fiasco di vino, chie sì e chie no". In fatto di competenza amministrativa gli eletti ce l'hanno uno no e uno no, e lo dimostrano. Non parliamo poi di cultura, Dio ce ne guardi, scampi e liberi. Ma, dico io, tutti gli universitari contestatori che ci sono in giro, qualcuno in lista lo potevi anche mettere, o forse avevi paura che con la poca cultura che poteva portare come universitario, portasse anche molta contestazione, che certo non gradite. E così ci ritroviamo con i Sindaci che se devono mettere insieme quattro parole bisogna che se le facciano scrivere dal Segretario Comunale e leggerle con estrema attenzione.
Alle riunioni in Provincia o alla Regione se la cavano abbastanza bene, perchè si ritrovano fra compagni di partito, ed allora se ci si deva far intendere ci si stiaccia un bel moccolo e tutto va a palline, ma se c'é da fare un discorso in occasione di una manifestazione, alla presenza di autorità ed invitati, che fa, ci stiaccia un moccolo? E allora stanno zitti il che spesso é bene, qualche volta però non possono fare a meno di aprire bocca e fanne misere figure come l'Assessore alla viabilità, che in pieno Consiglio Comunale, volle annunciare trionfalmente lo stanziamento dei fondi per asfaltare la strada "Capoluogo a Gavignano e viceversa. Mancava solo che qualcuno proponesse di togliere dal verbale quel "viceversa" allo scopo di dimezzare la spesa, visto che le casse comunali sono non solo vuote, ma piene di debiti. Roba da matti. Ma come, con tutti i soldi che spendete, potete anche fare ciascun consigliere un abbonamento a "Selezione" stante il fatto che in detta rivista mensile, si pubblica un'apposita rubrica con una trentina di vocaboli piuttosto difficilini, con relativa spiegazione nella pagina seguente. Almeno in fondo all'anno, qualcuno nella zucca gli ci resterebbe. Vi domanderete. E l'opposizione che fa? L'opposizione prega. Prega il Sig/Sindaco di fare questa cosa, prega l'Amministrazione Comunale di provvedere a quest'altra e poi fa voti. Fa voti che quanto richiesto a più riprese venga concesso, ben sapendo che non verrà accordato mai e cosi si diverte a fare proposte sballate, chiedendo la luna nel pozzo, ben sicuri di non ottenerla. a risposta al Sindaco alle varie richieste dell'opposizione é poi sempre la stessa, appresa probabilmente nei corridoi di partito o sentita dire da qualcuno che non voleva dire un bel niente.
Grosso modo é questa: "Nell'ambito di una ristrutturazione democratica, la parola democratica non deva mancare mai, di tutta la materia in esame e secondo gli interessi comprensoriali non mancheremo di ascoltare i suggerimenti della "base (non dell'opposizione) sordi come siamo agli interessi settoriali o addirittura corporativi."
Con queste ultime parole ha inteso dare una stangata all'opposizione ed é sicuro di aver fatto bella figura con quei quattro gatti di cittadini in fondo all'aula, che, chissà per quali ragioni sono presenti alla seduta del Consiglio. L'unica volta che l'opposizione si potè divertire, fu quando il paese di "Vattelappesca" fu insignito del titolo di "città".
Dopo pochi giorni, su tutti i mezzi della nettezza, urbana apparve lo stemma del paese con sotto la scritta a semicerchio "Città di Vattelappesca". Ma come? A Milano, sugli stessi mezzi sta scritto "Comune di Milano" e a Firenze "Comune di Firenze". Mancò poco che facessero stampare la carta igienica con lo stemma della città naturalmente ad uso e consumo del gabinetto del Sindaco. Si sentirono immediatamente tutti nobili, mentre il giorno avanti avrebbero guardato male uno che gli dava del Lei, e non lo chiamava "compagno proletario". Qualcuno pensò, lì per lì, se doveva farsi ricamare lo stemma sulla camicia e perché no, anche sulle mutande. Il bidello da quel giorno dovette dare del Lei a Sindacò e giunta e dovette mettersi il berretto con lo stemma per levarselo ogni volta che entrava qualcuno. Per Dio, bisognava metter un pò d'ordine. Nelle sedute comuni, tutti dovevano avere la cravatta e non dovevano più bestemmiare, sputare per terra, cose che fino al giorno prima erano state all'ordine del giorno.
Di colpo andò tutto a carte quarantotto per l'ottusità dell'opposizione demo-pluto-clerico-fascista. Avevano fatto pervenire una letterina al Prof/Devoto, insigne linguista allora vivente, citando il caso della nettezza urbana nobilitata da tanto stemma ed appena, quello rispose si fecero in quattro per farla in Consiglio Comunale e leggerla di fronte a tutti compresi quelli del popolino, pochi in verità, ma che avrebbero certamente fatto risapere in paese la mattina dopo. La lettera diceva testualmente: "Egregio Consigliere, lei ha ragione nel lamentare la enfatica dizione di "città di Vattelappesca". Si consoli pensando che un tempo, sui tram di Praga si leggeva "Servizio tranviario della città-capitale Praga. Cordiali saluti."
Si dovette riscancellare tutte le scritte con una spesa non indifferente, giustificata a bilancio come "spese organizzative in risposta alla provocazione neo fascista" e qualcuno dovette provvedere a far scucire lo stemma sugli indumenti intimi. L'unica loro consolazione poteva essere il fatto che tutto il mondo é paese.
9oo mila lire erano 9oo mila lire nel 1960. Ci si poteva comprare un'automobile di media cilindrata o una stanza di un buon quartiere con doppi servizi. Che la cifra era elevata lo dimostra l'enorme fatica che Mariolino aveva dovuto portare pazientemente per farsi prestare quella somma di denaro, da. Don Fosco parroco della Pieve. Sarà bene fare un quadro preciso dei personaggi e dei luoghi che videro la vicenda e soprattutto che la vissero.
Pieve é un vecchio oratorio poco fuori del paese, elevato a parrocchia da poco tempo, visto lo sviluppo edilizio che stava assumendo il paese in quella direzione. Fino allora era stata una chiesetta di campagna, come ce ne sono tante abbandonata dalla Curia che non la poteva assegnare ad un parroco per il semplice motivo che un parroco non ci poteva vivere non essendo dotata di terre annesse come proprietà, cosa che poteva dar da mangiare ad un prete ed ad una perpetua. La Pieve era così lasciata alla cura di una .vecchietta che abitava in una catapecchia attaccata all'abside della cappella, e che una volta la settimana, per pura carità cristiana, provvedeva a spazzare e spolverare. Questo avveniva il sabato stante il fatto che la Domenica mattina alla 7s Don Fosco, allora parroco di Magognano distante tre chilometri, diceva la messa alle quattro beghine del vicinato. SI era perpetrato l'uso della Messa Domenicale ad un solo scopo. Quello poi di farci la festa, che era tradizione centenaria, festa che si celebrava la prima domenica di Maggio in onore di un'effige della Madonna col Bambino, che la tradizione vuole sia stata trovata fra la neve, proprio una prima domenica di Maggio. Certo deve essere stata un'annata glaciale, perché da noi nevica così di rado, che quando avviene si fa festa a scuola. E nei tre giorni della festa era tutt'ltra cosa. Un via vai continuo di paesani, affezionati a quella vecchia chiesetta, così stranamente addobbata, da secoli, di ex voto altrettanto strani che ricoprivano interamente le pareti. Erano tibie, teschi, ossa varie del corpo umano, non so se vere o di cartapesta e inoltre una serie di quadretti del più puro naif, raffiguranti scene di sciagure, dal terremoto al cavallo infuriato, dall'affogato tratto a riva all'incendio del pagliaio con probabile strage di bambini della casa accanto. E tutti lì a dimostrazione dell'avvenuto miracolo ricevuto, per opera della Madonna della Pieve. La quale in occasione della festa, veniva portata in processione, sotto un baldacchino giallo con peneri, sorretto da 6 portatori che si alternavano durante il percorso, onore che toccava a quei pochi che più contribuivano finanziariamente per la riuscita della festa. Si sfilava nelle viuzze adiacenti alla cappella, in mezzo a banchi di venditori di brigidini, croccanti e mente, con in testa alla processione le vergini, con il velo bianco in testa, poi le donne, gli uomini, il clero di tutte le parrocchie vicine davanti al baldacchino e poi, dulcis in fundo, la banda cittadina, proprio la banda che dava l'importanza alla festa. Partiva di primo pomeriggio dalla Piazza del Comune e lungo tutta la strada, fino alla cappella, si portava dietro il solito codazzo di ragazzini saltellanti, creando un'eccitante atmosfera di allegria. Era, come vi ho detto, una festa sentita dal popolo, abituata a viverla anno dopo anno fin da ragazzini, magari saltellanti dietro la banda, e poi su, a mangiare brigidini con la ragazza e poi portando i propri figli dietro la lessa banda per continuare la tradizione. Le offerte in quei giorni fioccavano.
Per la fiera di beneficenza, organizzata dalle pie donne, rendeva bene e forse sarò maligno nel pensare che anche questo contribuì nello spronare Don Fosco a far di tutto presso il Vescovo della Diocesi affinché 1'allora oratorio venisse trasformato in Parrocchia e lui trasferito da Megognano alla Pieve. Sono convinto che Don Fosco pensava più alle anime che alla fiera, di beneficenza, tanto a Magognano di anime non ce n'erano più, data la zona abbandonata dai contadini, mentre alla Pieve, almeno una volta all'anno si vedeva un pò di gente e siccome c'era la festa, si poteva pigliare come scusa per chiedere a destra e a manca, quei piccoli contributi, che i paesani non lesinavano. Arrivato Don Fosco alla Pieve nominatovi parroco, cambiarono molte cose, e di questo bisogna dargliene atto. L'oratorio fu restaurato dove occorreva, il piazzale antistante fu ripulito a spese del Comune, la strada asfaltata, le panche di chiesa rifatte tutte nuove e gli arredi sacri, in parte li portò via dalla vecchia parrocchia ed in parte, sempre con l'aiuto delle pie donne e della popolazione, furono rinnovati. La messa si diceva tutte le mattine alle sette e la domenica oltre ad un buggerio di messe la mattina si facevano anche le funzioni la sera. Non so come sia avvenuto, ma dal paese si prese 1'abitudine andare con la macchina e con tutta la famiglia, alla messa della Pieve, che diventò quasi un appuntamento della gente non dico bene, come usava una volta, ma della gente meglio, perché in paese di gente cosiddette bene,non ce ne erano più, stante il livellamento in basso dei valori umani. I fondi della parrocchia quindi grazie all'iniziativa di Don Fosco, si fecero consistenti ed il parroco cessò di attingere per vivere dalla resa del podere di sua mamma, ancora in buona. Salute, che Dio la mantenga, che fino allora era. stato l'unico cespite oltre alla paga che lo Stato gli passava come Parroco di Megognano. Dire che la Domenica alla Pieve c'erano tutti quelli che stavano facendo quattrini non era. sbagliato, il paese conta il 70% di comunisti alle elezioni comunali, sindaco e giunta sono comunisti, i cosiddetti industriali venuti dal dopo guerra sono comunisti, così almeno dicono, ma. la domenica vanno con i bambini alla messa alla Pieve. E dopo la messa, sul piazzale davanti, Don Fosco fa conversazione, tiene insomma le pubbliche relazioni, una volta all'anno indice la benedizione DELLE auto e ti appiccica la patacca sul vetro con l'effige della Madonna per _sole 1000 lire. Queste pubbliche relazioni gli servivano per avere la possibilità conoscendoli tutti o quasi fin da ragazzini, di non fare anticamera, al momento di chiedere fondi per la chiesa, cosa che faceva, come vi ho detto, due volte all'anno, e cioé per la Festa della Pieve e per Natale.
Vi domanderete? Va bene che chiedesse per la Fiera di beneficenza in occasione della festa della prima domenica di Maggio, ma che c'entra il Natale. Questo dimostra che non conoscete l'organizzazione di Don Fosco. Tutti i preti, in tutte le parrocchie fanno la messa di Notte per Natale e naturalmente la capannuccia o il presepe, come lo volete chiamare. Don Fosco era Don Fosco. Inventò la Messa di Notte a invito. Non che fosse proprio riservata agli invitati, ma ne aveva tutto l'aspetto. Un mese prima di Natale cominciava a fare il giro delle industrie locali richiedendo fondi per la parrocchia e dove non gli venivano negati, il che avveniva molto raramente, rilasciva un cartoncino nel quale si offre il benefattore di intervenire alla Messa di Mezzanotte alla Pieve, per unirsi in preghiera al parroco ed ai fedeli per ottenere da Dio quelle grazie che si riteneva di richiedere, certi di essere esauditi, visto il generoso contributo appena incassato. Non che nel cartoncino ci fosse proprio scritto così, ma lo si faceva intendere con belle frasi di ringraziamento e di larghe benedizioni. E così alla messa di mezzanotte dì Natale, chi voleva il posto ci doveva andare alle 9, subito dopo cena, sennò o stava ritto di dietro o fuori sul piazzale a beccarsi il freddo. In quella occasione la questua veniva fatta due volte, prima e a metà della messa, perché si temeva che tutti non potessero contribuire_come volevano, vista la ressa, mentre passando due volte si era sicuri che a nessuno era stato negata la possibilità di versare quell'obolo, ricompensato dalle grazie richieste e certamente esaudite. La. mattina del Natale, poi, ne aveva pensata un'altra il buon Don Fosco. Con un collaboratore esterno aveva fatto in modo che venisse presa un'iniziativa da un certo gruppo di fedeli, per recarsi a porgere gli auguri di Natale, proprio a lui, la mattina di Natale. Per accogliere degnamente quanti sarebbero andati per quello scopo, il parroco aveva imbandito una tavola nella stanza attigua alla sagrestia, con rinfreschi e pasticcini e così chi con la scusa del biscottino per il bambino, chi per il vin santo di Megognano che Don Fosco si era portato dietro, si passava dalla chiesetta alla sagrestia e poi al rinfresco. Anche questa fu azzeccata in pieno. Per tutto il giorno di Natale era un via vai, e chi per l'aperitivo e chi per il digestivo veniva invitato nell'apposita stanza, come un onore riservato non a tutti. Anche perché durante la Messa di Mezzanotte, la sera avanti, dopo il Vangelo, si premurava di invitare tutti i presenti per la mattina successiva a partecipare a un preghierino dì ringraziamento così tutti i presenti si sentivano in dovere, la mattina dopo, di fare gli onori a Don Fosco, ed in diritto di assaggiare il vin santo dell'annata. Anche Mariolino (chiamiamolo Lino perché troppo lungo) era amico di Don Fosco stante il fatto che esuberante e chiassone com'era, non mancava mai, né alla festa della Pieve, né ai rinfreschi di Natale. Don Fosco lo conosceva da tanti anni, lo stimava per un bravo ragazzo e soprattutto sapeva che non era comunista. Non che ai comunisti desse l'ostracismo o la scomunica, ma tant'è che quelli che sapeva essere non comunisti gli stavano meglio a mano. Lino aveva sposato di recente una brava ragazza e si faceva veramente onore nel campo della mobilia, attività dominante nelle industrie paesane ed in sensibile evoluzione. Si respirava insomma. nel guardarsi intorno, l'aria, del boom economico che stava maturando. Si costruivano case dietro case, capannoni, ci si trasferiva continuamente in capannoni sempre più capaci di ospitare l'industria in espansione ed anche Lino, amico sincero e ragazzo stimato dà molti, chiamiamoli industriali in erba, non se la passava male. Senonché i soldi non bastavano mai e Lino aveva in testa una certa combinazione con altri due, che lo avrebbero messo in una condizione di promuovere certe idee e concretizzarle con prospettive invidiabili. Ma gli mancavano i contane e le banche, non avendo beni al sole, non gli aprivano la borsa. Pensò così di rivolgersi a Don Fosco, ben sapendo che i soldi c'erano, essendo già alla Pieve da anni, ormai confermato dalle superiori autorità ecclesiastiche, giudicato in possesso di fondi consistenti, voci confermate dal fatto di frequenti visite versamenti ad una banca locale. Non so come Lino abbia preso il toro per le corna, non ritenendo tanto facile ottenere quel che desiderava da un personaggio che aveva tirato la carretta per non pochi anni, senza lamentarsi, che aveva vissuto come aveva potuto, senza compromessi, anche se talvolta qualche pasto aveva dovuto saltarlo. Certo Lino era la tipica, espressione della fiducia in se stesso, della riuscita di qualsiasi impresa, della sicurezza nel domani, quella insomma che ti dice "dammi una leva e ti sollevo il mondo" e ti fa correre a cercare la leva. Perché se così non fosse stato non credo che Don Fosco gli avrebbe dato le 900 mila lire.
A questo punto occorre iniziare un nuovo capitolo avendovi descritto finora la classica, tipica, calma provincia, falsa, bigotta se volete, ma sana, alle radici, risparmiatrice avveduta, salvadanaio di qualsiasi operazione finanziaria, nei limiti delle proprie possibilità. E aprirne un'altro, come un sipario che si apra all'improvviso e vi mostri con tutta le possibilità della tecnologia, della. meccanica, dell'affarismo più spinto la più grande festa, della compravendita. Insomma la Fiera di Milano. E' qui che si corre da tutt'Italia, per portare e prendere soldi, per correre di nuovo a riportarli in tutt'Italia e via di seguito. Anche Lino portò quei soldi a Milano, perché era lì che doveva concretizzare quelle idee che lo avrebbero portato sulle altre vette dell'industria paesana. Aveva degli amici che già arrivati economicamente, esponevano i propri prodotti in Fiera e con questi, come da accordi presi, si imbrancò, per conoscere e avvicinare i personaggi di quella rappresentazione che stava scrivendo nel proprio cervello, certo di poterli far recitare come voleva lui e con un finale da commedia nel quale sarebbe riuscito acclamatissimo primo attore. La commedia finì purtroppo in tragedia, perchè questo Pinocchio trovò il gatto e la volpe, ruoli ricoperti dai suoi amici i quali prendendolo proprio per il naso lo convinsero a passare una sera dal Casinò di Campione per tentare di vincere qualche spicciolo; come erano soliti fare almeno una sera nel periodo fieristico. Anche perché tornando in paese,bisognava raccontare di aver vissuto, donne e champagne non dovevano mancare nei racconti dei vari night visitati, il tutto condito dalla suspence del Casinò. Una caramella tira l'altra, l'appetito vien mangiando, il rosso, il nero, il passe e manque, i cavalli e la pallina che girava, fecero altro che girare la testa a Lino. Gli fecero prima vincerà una bella sommetta che regolarmente riperse tutto, compreso le 9oo mila lire di Don Fosco. Tornò a casa perché gli prestarono i soldi il gatto e la volpe, sennò veniva a piedi. Sarebbe stato meglio, perché così strada facendo poteva studiare il modo migliore per vedersela con Don Fosco. Cosa che doveva fare di lì a qualche giorno. Una mattina alle 7, fece uno spiraglio alla porta della cappella per controllare quando Don Fosco sarebbe entrato nel confessionale, come faceva tutte le mattine per quelle quattro beghine. Come tutti i confessionali dell'epoca aveva una specie di sgabuzzino al centro con un sedile per il confessore, coperto da una. tendina scorrevole su una corda, che il prete richiudeva dopo essersi seduto. Ai lati due inginocchiatoi per i confessandi e fra loro ed il prete, una grata molto fitta, che non permetteva di vedersi reciprocamente fra i due. Dalla parte del prete, ci stavano poi due sportelli, uno per parte, che chiudevano la grata. Il confessore quindi ne chiudeva uno ed apriva l'altro. Appena un inginocchiatoio si rese libero, Lino si precipitò a prendere il posto ed attese con calma. Dopo un pò sentì che lo sportello si apriva, si fece il segno della croce, seguendo l'esempio di Don Fosco, furono fatte le solite domande d'obligo, su quanto tempo era stato senza confessarsi e cosa aveva, commesso in quel tempo. E qui si rivelò il disegno che Lino aveva attentamente studiato, e che avrebbe messo nel sacco il povero prete. Cercò di alterare la voce il più possibile, fingendo una punta di commozione, confessando di aver commesso un grosso peccato, che quasi si vergognava anche di confessarlo e chiedeva consigli paterni, conforto per quanto aveva fatto e come doveva fare per riparare al malfatto. Ma non si decideva a dire che cosa aveva tetto, per tenere il prete sulla corda, prolungare l'attesa, e magari ottenere una parola di perdono preventiva che lo avrebbe messo un pò più al sicuro. Don Fosco immaginava chissà quale misfatto aveva commesso questo pellegrino pentito che presentava, fatto inconsueto, alle sette di mattina di un giorno qualsiasi della settimana. Cercò di confortarlo e quasi fece ventilare un perdono che Dio concede a tutti noi peccatori e che avrebbe concesso anche a lui, se proprio non fosse stato un peccato mortale e fosse stato certo del pentimento. E qui sul pentimento che Lino fondò le sue speranze. L'aveva, calcolato che p |i doveva arrivare e si confermò più che pentito, addirittura straziato nell'anima anche per il semplice fatto che non era in grado di riparare al malfatto. Don Fosco non stava più sulla panchetta. Voleva sapere, voleva conoscere quale peccato aveva commesso, era. curioso e ansioso. In tutta la sua carriera di parroco di peccatori grossi così non gli erano mai capitati. I soliti peccatucci da dozzina che vengono anche a noia, a sentirli ripetere. Ma qui c'era roba grossa. C'era del marcio, indubbiamente ci poteva anche essere scappato il morto. Si sentiva sulla cresta dell'onda, sul punto di conoscere un misfatto che avrebbe certamente inorridito le cronache del tempo e lui, lui solo, ne avrebbe saputo la verità e conservata gelosamente nel segreto del confessionale, paladino di una fede, magari anche martire se fosse stato necessario, nei confronti di una folla che immaginava accalcarsi attorno alla sua chiesetta, per sapere la verità che lui conosceva e lui solo. Batteva i piedi nervoso, ma. cercava di parlare con calma per costringere l'interlocutore a sbottonarsi, a mettere nelle sue mani quel peso che immaginava opprimesse tremendamente quel peccatore. Pensò di esserci riuscito, quando Lino accennò a questioni di denaro e volle scavare paternalisticamente per scoprire il vero movente della confessione, perché per una mera questione di denaro non ci si confessa alla 7 di mattina, specie un uomo, che dimostrava anche nel parlare una certa consapevolezza di ciò che aveva commesso. Quindi fuori il rospo ed eventualmente tutti i particolari del delitto. Con voce sommessa, Lino, proprio per non farsi sentire bene, accennò alle 90 mila lire che non avrebbe potuto più rendere. Li per lì Don Fosco non capì bene, perché stava ancora maturando nella mente ed elaborando tutti i dati, che erano pochi veramente, che finora gli erano stati forniti dal peccatore e che, accresciuti dalla sua fantasia avevano bisogno di un certo ordine. Si fece ripetere l'ultima frase e quando questa gli pervenne chiara ,altrettanto chiara si fece la situazione. Si schiarì le idee in soli due secondi, tanti quanti ne passarono dalla fine della frase rivelatrice al colpo di mano sulla tendina spostata con forza, per uscire dal confessionale, sbattere lo sportello e gridare "Quelli sono mia, vieni fuori". Battè tre volte il ginocchio destro in terra davanti all'altare, cosa che faceva solo in occasioni di messe cantate e si precipitò a valanga in sagrestia.
Lino si guardò bene dal seguirlo, sgattaiolò ratto ratto lungo il muro, uscì dalla cappella e appena sul piazzale dette una di quelle risate che se ci fosse stato l'eco, avrebbe rimbombato per un quarto d'ora. La ragione era che lui ci aveva provato, che Don Fosco non aveva abboccato e quindi in definitiva i soldi doveva renderli. Ma questo figlio di... rideva perché i soldi li aveva già pronti, non so come racimolati, magari da un'altro prete, e quindi rideva perché in quella mezzoretta il povero Don Fosco di emozioni ne doveva avere avute a sufficienza. Era questo che voleva e ci era riuscito.

Da oltre 150 anni, la famiglia Ancillotti vuol dire RISTORAZIONE. Andiamo per gradi, seguendo così la nascita e lo sviluppo. Nel 1850 un certo Beppe Ancillotti, faceva parte della famiglia che, in parte, gestiva UN modesto negozio di alimentari, in Via Maestra, al piano terreno di una abitazione con solo un altro piano per le camere personali. Beppe ebbe la sfortuna di perdere la moglie e verso il 1850 conobbe a Firenze una bella fanciulla di nome Letizia. Ma veniamo agli usi del tempo. Gli operai iniziavano a lavorare la mattina alle 5 in estate ed alle 6 in inverno. Era però consuetudine, quella di fare colazione alle 10 del mattino ed era logico accompagnare il solido con un buon bicchiere di vino. Da Beppe era frequente la visitina di molti lavoratori, proprio in quella fase della giornata. Beppe ebbe un'idea. Se con pochi Centesimi poteva offrire un qualcosa di diverso, la cosa era interessante. Ma ci voleva qualcosa di economicissimo. Ecco che salta fuori la trippa, che nessuno voleva ed era logico. Occorreva pulirla e l'acqua corrente in casa non c'era. Occorreva bollirla e poi cucinarla in qualche modo, ma il carbone o la brace aveva un costo non indifferente. Come avrà provveduto il nostro Ancillotti. Presumo che sia avvenuto così. Mi ha raccontato il suo bisnipote che un giorno gli portarono un tasso che sostenevano essere un piatto prelibato. Beppe lo prese, lo mise in un sacchetto e lo portò, credo al Masso, e lo tenne in mollo più di un giorno, per smaltire il tremendo odore di salvatico. Forse con la trippa fece lo stesso e preparò una trippa alla Fiorentina, cucinata da Letizia, e che ebbe UNsuccesso,anche presso altri consumatori.
La bottega divenne una trattoria e più tardi un vero ristorante. Si era sparsa la gustosità di quel piatto anche oltre il paese. Viaggiavano allora molti rappresentanti di Commercio, che stando per lavoro in paese non mancavano mai alla mensa di Alcide. Si dice anche che è scapitato che, tra un treno verso mezzogiorno ed il successivo, qualche viaggiatore approfittasse della sosta per gustare una buona trippa o di un cacciucco.
Il ristorante vero e proprio vide la luce ai primi anni Venti, spostandosi sempre in Via Maestra nel fondo più grande in uso attualmente al Dei. Il precedente fu demolito per fare posto all'attuale Banca Toscana, ma allora era il Monte dei Paschi. Così si arriva al cacciucco, la specialità della casa ormai affermatissima, dopo aver abbandonato la trippa, per la minore richiesta di questo piatto. In paese non c'era una pescheria ed il poco pesce che si poteva trovare era merito dei singoli appassionati o fornito da pescatori di frodo. Ma sempre pesce di fiume, Alcide voleva il pesce di mare, per fare il cacciucco. Si organizzò e quasi tutte le mattine, con il primo treno arrivava pesce da Livorno. Nel 1936 Alcide si spostò di nuovo per occupare un fondo sempre più grande, sempre in Via Maestra proprio di fronte alla sede del Monte dei Paschi.
Siamo all' attualità. Nel 1966 viene inaugurato il nuovo Hotel e Ristorante in Viale Marconi; dispone di 177 letti ed a tavola può servire oltre 500 coperti, grazie alle tre grandi sale a disposizione.
Insomma più di una vita al lavoro costantemente dal l850, da Beppe, poi Lorenzo ed infine Alcide con la sua figlia maggiore, Maria, pilastro decennale della cucina, dedicata principalmente a soddisfare il palato degli avventori con piatti a base di pesce che sono ormai famosi e ricercati. Dopo Maria, Sandro e Beppe ed ora anche i nipoti possono dire la sua, dirigendo tutto il complesso, non facile, con una cura di vecchio stampo, rimasto nel DNA di tutti gli Ancillotti.
(Nella prima fotografia: siamo davanti alla seconda sede, davanti al Monte dei Paschi. Da sinistra Rubinetta la moglie, le figlie Santina, Sandra e Maria ed infine, Alcide l'ultimo a destra. Nell'altra foto, sempre nello stesso posto di prima, Alcide con la moglie Rubinetta con in braccio una nipote.)