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MONTERNANO

Don Francesco Pratelli, nella "STORIA DI POGGIBONSI" racconta ed analizza la storia di questo Castello, del suo assedio e della ditrizione.
Cerco di riassumere i fatti e le conseguenze derivate. Nel 1270 una carovana di Orvietani si stata recando a Firenze, con molta mercanzia da scambiare, ed omaggi per la città. Entrambe le città erano di parte Guelfa e quindi alleati. Attraversando la zona del Chianti si imbatterono nelle milizie dei padroni della zona, i feudatari Squarcialupi di parte Ghibellina. Per farla breve gli Orvietani si rivolsero a Firenze, che non aspettava altro per disfarsi degli Squarcialupi e del loro Castello di Monternano. Cinsero d'assedio il Castello, senza riuscire ad espugnarlo. Ebbero un’idea geniale. Abbattere una parte delle mura per penetrare e risolvere il tutto. Ingaggiarono minatori dalla zona di Montieri, che scavarono sotto le fondamenta, armarono il tutto con legname fasciato di pece dopo di che riempirono il vuoto con fascine di legno secco. L'incendio successivo fece crollare la muraglia, i Fiorentini si precipitarono all'interno e come di consueto e come avevano fatto a Semifonte, rasero al suolo il Castello e decretarono la fine della supremazia degli Squarcialupi nella zona.
Ma come poteva passare alla storia italiana questo piccolo castello se non per il modo di come venne conquistato. Allora veniamo a quanto avviene oggi. Nell'Accademie Militari si studiano i vari mezzi per occupare una posizione di forza. Ebbene nei testi si riporta che Firenze fu la prima ad usare il mezzo del crollo della parete, e che fu la prima volta in assoluto. Tutto questo avvenne a Monternano.

Il Lavorini aveva una bettola in fondo a Piazza del Comune e nell’ultimo giorno di carnevale, lega una salsiccia con una corda in cima ad una lunga canna. Andava a giro per il paese con l'intento di sbatterla per gioco, in faccia ai numerosi ragazzini che lo seguivano. Qualcuno più svelto riusciva a catturarla ed il buon Lavorini ne metteva un'altra e fino a sera continuava il gioco.

Per la Befana o meglio per la vigilia della Besan; gruppi di ragazzini andavano per il paese a gruppetti e davanti ad alcuni negozi urlavano "FUORI FUORI" il che voleva dire che gradivano piccoli regalucci specilamente dolci. Al che i bottegai lanciavano loro qualche caramella, qualche fico secco o qualche castagna secca. Vi erano vere e proprie baruffe per catturare questi modesti omaggi.

Un cugino dei due Dario Frilli ebbe più fortuna e successo. Parlo di Treves Frilli, fervente Comunista piuttosto stalinista. Fu arrestato varie volte in periodo fascista, condannato dal Tribunale speciale a non so quanto di detenzione. Finisce la guerra e come maggiore esponente antifascista viene nominato Sindaco di Poggibonsi, se non sbaglio due o tre volte. Ma quello che conta sta il fatto che faceva il Sindaco, ma anche il commissario Politico, termini usati nella resistenza, nelle brigate a carattere comunista, a Poggibonsi pendevano tutti dalle sue labbra, sia i simpatizzanti pronti ad ogni ordine, sia i favorevoli alla sua politica, sempre in stato d'animo di qualche piacevole avvenimento e di questi ce ne sono stati molti. Quindi il nostro Treves viaggiava con il vento in poppa, in condizione di prendere iniziative, anche poco legate al suo stato di partigiano e combattente, come dice lui. Tutto questo si rileva da un libro di Bruno Baroni "Il Fauno editore" di Firenze, intitolato "Messaggio Speciale. L'Arno corre a Firenze" finito di stampare nel 1981. E' una strana biografia nella quale l'autore inserisce altri personaggi, con fatti al di fuori della cerchia degli amici e dalla sua presenza nei fatti stessi. Non si riesce a capire come il Frilli sia entrato nel giro dell'autore. Fatto sta che a pag. 42 in una riunione di partigiani in un palazzo in Via dei Benci a Firenze venne richiesto a "Ses" così veniva chiamato per abbreviazione, quale era il suo nome di battaglia "come hanno loro comunisti" Beh, si fa a, che per tenere su il morale dei nostri compagni, sui monti alla macchia. Io sono il "Boia della Valdelsa" ed ho anche diciassette tacche e mezzo sul mitra. Sì, perché mezza? Gli fu chiesto. "Sarà stato il figlio di un gerarca". Il tutto in combattimento e per le strade, non è molto chiaro anche se potrei fare due ipotesi. La prima che tutto ciò non sia vero, ma non abbia partecipato ai fatti di sangue, ma soprattutto che abbia confidato ai suoi "giannizzeri" e ne aveva molti, che operarono anche dopo il passaggio del fronte, curioso il richiamo alle tacche sul mitra, di derivazione Texana. Comunque, Don Pacconi, Parroco di Casaglia avrà avuto occasione di assolverlo diciassette volte e mezzo, nei frequenti periodi che trascorreva presso di lui, terrorizzato dal pensiero di essere, prima o poi, richiamato lassù.

La mia impressione é, dopo quello che abbiamo saputo molto tempo dopo il passaggio della guerra, che Treves aveva trascorso molto tempo, rintanato nel campanile di Cedda, ottimo posto per dirigere operazioni di guerriglia che qui non ci sono mai state,come non é esatto affermare di avere diciassette tacche e mezzo nel suo mitra che non ha mai usato, e dal fatto che non vi sono stati un così gran numero di fascisti uccisi in tutta la zona. Ritengo invece il suo atteggiamento come un riconoscersi intimamente non dico, vigliacco,ma pauroso certamente, e per mantenere credibilità verso i suoi, doveva per forza, ostentare megalomania, come si deduce dall'articolo a suo tempo pubblicato. Curioso il ricordo delle tacche sul mitra. Ancora non erano stati presentati film americani, in specie la storia del Generale Patton e delle tacche sulla pistola.