Vogliamo tornare indietro di qualche anno per narrarvi un fatto che, per il periodo in cui avvenne, fu estremamente clamoroso. Vi abbiamo già raccontato ciò che accadde nel 1920 in merito alla sparatoria in Via Maestra che vide coinvolti i fratelli Delle Case, personaggi molto noti in paese, in quanto appartenenti ad una famiglia di ricchi possidenti. All'episodio fecero seguito lunghe indagini con conseguenti strascichi giudiziari, suscitando un gran clamore tantoché la popolazione continuò a parlare per molto tempo.
La vicenda che vogliamo raccontarvi ora avvenne senza rumore, se paragonati ai fatti del 1920. Questa riservatezza fu dovuta al fatto che i personaggi coinvolti nell'episodio (solo tre per la verità) non appartenevano ad una famiglia dell'alta borghesia. Essi conducevano la vita di tutti i giorni in modo dignitoso, ma monotono, e sebbene fossero conosciuti da tutti, non erano in "vista" e quindi si resero protagonisti di fatti più ovattati, diciamo quasi nascosti, coma si vedrà più avanti.
Siamo nel 1938 allorché troviamo la famiglia Rosi, composta da Ferdinando (7/7/1898) di anni 40 e dalla moglie Marietta Chiti di qualche anno più giovane. Il Rosi (nella foto il secondo da sinistra nella fila di mezzo) era infermiere all'ospedale Pietro Burresi di Poggibonsi insieme ad Amato Casini, Pietro Bacconi, Antonietta Turchi, Adele Catarzi ed altri. Ferdinando era un uomo modesto, riservato, ottimo lavoratore, professionalmente ineccepibile (ci sembra doveroso informare il lettore che gli infermieri di allora non erano dei semplici portantini, ma assistevano addirittura il primario chirurgo prof. Antonio Lazzeroni in sala operatoria).
Dal matrimonio Rosi-Chiti erano nate due figlie e quindi nulla turbava il ménage familiare. Nelle ore libere Ferdinando cercava di rendersi utile nel compiere altri lavori: c'è stato riferito che molto spesso lo si vedeva con un carretto carico di forme di legno andare a "Bocca d'Elsa" per raccogliere rena fine per fare dei masselli (simili ai blocchi di cemento di oggi) che gli servivano per ristrutturazioni o ampliamenti alla propria abitazione o per vendere a imprese edili. Quindi un uomo tutto casa e lavoro. Anche il suo portamento era molto riservato e contenuto e niente faceva prevedere che una persona così poco appariscente comparisse improvvisamente alla ribalta della cronaca.
Andiamo per gradi: il Rosi abitava al Sasso Gocciolino, in via Piave e vicino alla sua abitazione abitava la famiglia Suali con la figlia Elia di ventidue anni (16/6/1916). La ragazza voleva studiare per ottenere il diploma di infermiera, a quei tempi molto ambito, e a tale scopo doveva recarsi a Siena per frequentare appositi corsi. Senonché avendo la ragazza come vicino di casa un infermiere del calibro di Rosi ed essendo le famiglie in buoni rapporti fra di loro, nacque spontanea per l'apprendista l'iniziativa di farsi dare qualche lezione dall'esperto.
Si instaurò quindi un rapporto molto stretto tra Nando (così tutti lo chiamavano in paese) ed Elia. Non sappiamo quali rapporti vi siano stati fra i due al di fuori di quelli strettamente professionali: i fatti seguenti comunque ce ne potranno dare una spiegazione!
La sera del 26 luglio 1938 Nando con la moglie Marietta escono di casa dopo cena e si avviano verso il ponte del mulino a prendere una boccata d'aria, come erano soliti fare ormai da un po' di tempo. Dal ponte scendono verso il viottolo che allora divideva la gora del mulino dal fiume Elsa e si incamminano verso la steccaia del Masso. Occorre ricordare, come ci hanno confermato molti testimoni, che la Marietta era molto miope e la serata piuttosto buia. Ad un certo momento il Rosi si ferma a fare pipi, mentre la Marietta continua a camminare lungo il viottolo. Com'è, come non è, ad un certo punto la Marietta vola nell'acqua della gora e si mette ad urlare a squarciagola.
Anche Nando urla e due passanti, Marino Conforti e Geo Vecchioni, accorrono in aiuto, ma non riescono a salvare la donna che verrà ritrovata due ore più tardi alla grata di imbocco dell'acqua nel mulino, morta stecchita.
Una disgrazia come tante altre. I Carabinieri, fra i quali l'appuntato Francesco Pasqualicchio, comandati dal Maresciallo Ettore Fabozzi, esplicano tutte le indagini del caso e, fra i sussurri increduli e le voci della gente, viene accreditata la versione dell'occasionalità e quindi archiviato il tutto, non essendo risultato nessun elemento a carico di Nando che nel frattempo riprende il consueto lavoro all'ospedale e a impartire lezioni alla Suali.
Sennonché il 6 febbraio 1940, un anno e mezzo dopo la morte di Marietta, il Rosi convolò a giuste nozze con la Suali. Si incominciò allora a subodorare un certo puzzo di "bruciaticcio" e sotto sotto furono riprese le indagini, sollecitate soprattutto dalle sorelle di Marietta. Vennero avvicinati più volte i due coniugi dai carabinieri che ripresero anche con gli interrogatori; messa alle strette, un giorno Elia vuotò il sacco: la donna confessò che Nando, perdutamente innamorato di lei, aveva da tempo maturato l'idea di sopprimere la Marietta e che fu lui, quella notte, a spingerla nella gora. L'uomo inoltre avrebbe minacciato di far fare la stessa fine anche ad Elia se questa avesse rivelato il terribile segreto. Il Rosi, una volta arrestato, finì per confessare.
Si arriva cosi al processo in Corte di Assise di Siena, nel giugno del 1941. Come vedete i processi allora si facevano alla svelta, non come spesso accade oggi che durano diecine di anni e si concludono certe volte con la morte dei protagonisti e dei testimoni! Difendevano il Rosi gli avvocati Manlio Ciliberti e Bruno Delle Piane. L'accusa era di omicidio aggravato e premeditazione per motivi abbietti e subdoli quindi gravissima, suffragata oltretutto dalla confessione del Rosi che ammise di aver spinto la moglie nella gora, ma di averlo fatto involontariamente, di essersene pentito subito dopo, ma di non essersi buttato in acqua in suo soccorso perché non sapeva nuotare (mentre durante una perquisizione gli fu trovato in casa un attestato di una vittoria in una gara di nuoto).
La difesa tentò tutte le strade possibili mettendo in particolare evidenza che il Rosi avrebbe agito in preda ad una passione dissolvitrice delle sue facoltà mentali ed anche per questo era da ritenersi seminfermo di mente. Si chiese la condanna ma non l'ergastolo. Invece la Corte, dopo sole due ore di Camera di Consiglio, riterrà il Rosi colpevole e lo condannerà alla pena dell'ergastolo.
Vogliamo seguire il Rosi nel periodo della carcerazione, durante il quale si comportò da detenuto modello, come del resto ci si poteva aspettare da una persona di carattere schivo e riservato come il suo. Era in carcere quindi durante il periodo della guerra quando, con l'arrivo degli alleati fu liberato insieme a tutti gli altri detenuti. Il Rosi venne a Poggibonsi e stette sfollato a Montemorli, ma qualche giorno dopo la liberazione si presentò alla caserma dei carabinieri e ritornò in galera. Dopo una trentina di anni fu graziato per buona condotta, ritornò a Poggibonsi, si riunì con la moglie Elia e seguitò per tutto il resto dei suoi giorni a condurre una vita appartata come aveva sempre fatto.
Il dott. Amerigo Dei gli assegnò un fazzoletto di terra da coltivare in un luogo situato dopo le colonne che delimitano la strada che conduce al castello di Badia (fra l'altro ci sembra doveroso ricordare che Nando, da bravo artigiano, restaurò tutti gli infissi del castello stesso). Qui trascorreva la maggior parte delle sue giornate ed offriva ai passanti: insalatina fresca, gustosi pomodori, tenere finocchielle, carciofini novelli che orgogliosamente riteneva superiori a quelli prodotti dagli altri ortolani del paese. Questo era Nando Rosi. (Il fatto sembra sia stato ripreso dai cantastorie che giravano di paese in paese per narrare le vicende popolari, ma nonostante le ricerche effettuate non è stato possibile ritrovarne il testo).
Occorre ricordare che in previsione del processo e durante lo stesso, la stampa si occupò ampiamente del caso. Il 4 novembre del 1940 "La Nazione" mette in evidenza che «La sessione della Corte d'Assise, quest'anno si chiuderà con il processo contro Rosi Ferdinando, imputato di omicidio aggravato». Riporta poi tutta la storia di come si sono svolti i fatti e tanto doveva interessare i lettori che il 15 novembre del 1940 riporta quasi testualmente l'articolo precedente. Nel giugno del 1941 vengono seguite molto da vicino le sedute della Corte d'Assise fino al primo luglio dello stesso anno allorché viene pronunciata la sentenza. Riportiamo uno stralcio del giornale "La Nazione" in quella data:
La sentenza nel proceso per uxoricidio «È stata ripresa ieri mattina l'udierna per la causa contro l'infermiere Ferdinando Rosi da Poggibonsi, imputato di uxoricidio nella persona della di lui moglie, Chiti Marietta. Dopo una permanenza di circa due ore la Corte è rientrata ed il Presidente ha letto la sentenza con la quale il Rosi è stato dichiarato colpevole di omicidio volontario aggravato per motivi futili ed abbietti e condannato all'ergastolo. Gli avvocati della difesa hanno dichiarato che contro tale sentenza ricorreranno in Cassazione».
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